4 marzo 2010

vetri rotti...


"La mia prima fionda me la fece a San Luis lo zio Eugenio, che lavorava come detective al casinò di Mar del Plata. Era un gioiello: avevamo cercato la forcella perfetta tra tutti gli alberi del quartiere e quando la trovammo salii di ramo in ramo per tagliare quello che conservava simile tesoro. Mio zio la scortecciò con un coltello e la dipinse con una vernice marroncina. Gli elastici li ritagliò da una camera d’aria che un gommista ci diede gratis e per accogliere il proiettile cercò del cuoio leggero, sembrava camoscio, che si intonava al colore del legno. Gli agganci li fece mio padre con filo di rame ben lucido.
Quello fu uno dei grandi giorni della mia vita. Avevamo allineato dei barattoli vuoti in fondo a uno sterrato e ci allenammo fino a quando calò il sole. Mio zio era davvero entusiasta ma faceva centro raramente. Altrettanto gli succedeva con i numeri del casinò, dove lasciò fortune sue e altrui. Finché passò dall’altra parte del banco e imparò la professione dei borseggiatori per prenderli con le mani nel sacco. Tra la sorpresa di tutti, chi si rivelò proprio in gamba fu mio padre, che (…) aveva conservato la scaltrezza del nonno, il pistolero di Valencia. Come ogni mancino osteggiato, provavo una certa difficoltà a trovare la posizione per tirare. Ricordo ancora con rancore la maestra che alzava la voce e mi sgridava: – Soriano, la penna si tiene con la destra ! – E io la prendevo con la destra e scrivevo con una grafia impossibile che ancora oggi fatico a interpretare.
Di sicuro, per me era difficile maneggiare la fionda. Una sera d’estate uscii con mio padre in un giro d’ispezione, per sorprendere chi sprecava acqua potabile. Camminavamo senza fretta dopo cena, verso il quartiere delle ville. C’era gente che aveva piscine da venticinque metri e faceva lavare macchine, strade, facciate con l’acqua che mancava ai poveretti che non avevano i soldi per permettersi serbatoi di riserva né motori elettrici.

Mio padre suonava il campanello e si presentava molto gentilmente, si toglieva il cappello davanti alle signore. Io rimanevo qualche passo indietro ad ascoltare quel che diceva, che cambiava ogni volta e andava a finire in evocazioni poetiche e citazioni sarmientine. E’ vero che a volte faceva della demagogia. Metteva nella penna di Sarmiento e sulle labbra di San Martín cose che a scuola non mi avevano mai insegnato. Aveva la stoffa per colpire al fegato e arrivare al cuore. Una volta, di fronte a un industriale con l’aria del signorino viziato, che ci aveva mandato a cacare già due volte, indicò un rovere grande e frondoso che copriva l’ingresso di un terreno recintato e gli domandò con voce serena e convinta: – Lo sa che il generale Belgrano legò il cavallo a quest’albero, tornando dalla battaglia di Tucumán? – Il signorino rimase sorpreso e guardò verso il campo mentre nel suo cortile la festa continuava e gli invitati si tuffavano nella piscina illuminata da grandi fanali. – A me che cazzo me ne frega – , rispose e ci chiuse la porta in faccia. Mio padre mi appoggiò una mano sulla testa, si tolse la polvere dalle scarpe e suonò di nuovo il campanello. Il tizio apparve di nuovo, mise la mano in tasca e cominciò a contare delle banconote arrotolate – Prendi -, disse a mio padre, – compra un gelato al ragazzo -
Era tanto tempo che non mi compravano un gelato e lí per lí rimasi senza fiato. Le banconote erano marroni, nuove nuove, e quel tale le porgeva a mio padre con un sorriso sgradevole e tranquillo. Bastavano per due chili di cioccolato, crema e fragola. Da dentro arrivava la voce mielosa di Lucho Gatica. Mi batteva forte il cuore mentre mio padre rimaneva fermo lí, sotto la gronda del portico, con il vestito logoro e il cappello in mano. Non gli piaceva che gli dessero del tu. A un tratto alzò un braccio e indicò di nuovo l’albero. – La truppa si accampò laggiú – disse. – Il generale era molto malato e passò la notte sotto quell’albero. Non avevano nemmeno una goccia d’acqua e tutti si misero a pregare che piovesse -.
Ci fu un lungo silenzio finché non arrivò un ragazzo con un secchio d’acqua e si fermò vicino alla porta. – E ha piovuto tanto?- , domandò l’industriale, beffardo, mentre contava altre due banconote. – Nemmeno una goccia, rispose il mio vecchio e mosse la testa, sconsolato per il triste destino del generale. – Ordinò di fare un pozzo per cercare l’acqua e di seppellire i soldati che morivano – .
Mi resi conto che nemmeno quella sera avrei avuto il gelato. Il mio vecchio si mise il cappello con un gesto stanco mentre si sentivano le risate delle signore e le blandizie del trio Los Panchos. – L’acqua non si trovava mettendo mano alla tasca, signore – , disse il mio vecchio. Allungò il braccio con i soldi e il mio vecchio fece un passo indietro. – Senti, – cominciava a stancarsi, – il governatore sta qui dentro, perciò prendili, e via. Deciditi se non vuoi perdere il posto -.
Mio padre mi prese per una spalla e cominciammo a uscire. Allora arrivò la secchiata e mi sentii bagnare anch’io dagli schizzi del bagno di mio padre. Uscii di corsa ma il mio vecchio si comportò come se non fosse successo niente. L’industriale e l’altro scoppiarono a ridere e la porta si chiuse di colpo. Avevano qualcosa da raccontare al governatore e per ridere tutta la sera sul bordo della piscina.
Attraversammo la strada in silenzio. Arrivati all’angolo non riuscii piú a trattenermi e cominciai a piangere come uno stupido. Il mio vecchio camminava a capo chino ma imperturbabile e si andò a sedere sotto l’albero dove secondo lui aveva trascorso la notte il generale Belgrano. Accese una sigaretta, tirò fuori il blocchetto e scrisse la multa con una grafia tonda e chiara che gli ho sempre invidiato. Il cielo era pieno di stelle e faceva un caldo infernale. Da stare vicino alla piscina a mangiare un gelato. – Non raccontare niente alla mamma, va bene? – mi disse. Pensavo alle banconote marroni e ai giorni che mancavano alla fine del mese, quando portava a casa il suo stipendio insignificante. Per dire qualcosa gli domandai come avesse fatto Belgrano a trovare l’acqua.
- Non lo so, figlio mio; da ogni porta a cui bussava gli tiravano un secchio di merda. -
Si alzò, si tolse la giacca per scuoterla e mi chiese che inventassimo per mia madre un incidente con il camion annaffiatore. Ce ne stavamo andando quando a un tratto si mise a guardare la chioma dell’albero.
– Hai portato la fionda? – mi domandò.
Gli dissi di sí e gliela diedi, insieme al sacchetto di sassi che tenevo legato alla cintura.
Lasciò la giacca su un cespuglio e cominciò ad aggrapparsi al tronco. Non era abbastanza agile per quell’arrampicata ma riuscí a raggiungere il primo ramo e da lí passò a un altro piú alto finché cominciai a perderlo di vista. Avevo paura che cadesse e si rompesse qualcosa, come gli era successo altre volte. Cominciai a immaginare Belgrano inerpicato sull’albero, che scrutava l’orizzonte, malato e sporco, con i pantaloni bianchi, la giacca azzurra e il poncho rosso.
Sentii un rumore di vetri rotti e poi un lampione che andava in pezzi e un altro che scoppiava. Mi girai e vidi che la casa della piscina rimaneva al buio. Cercai mio padre tra le foglie dell’albero e immediatamente lo sentii cadere accanto a me con la fionda in mano. Questa volta cadde in piedi, aveva la faccia luminosa.
- Dài, mi disse a voce bassa. Andiamo a mangiare un gelato.
"

tratto da "pensare con i piedi" di osvaldo soriano

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